calcio

Il calcio non è più capace di entusiasmare

Parliamoci chiaro, per uno che è nato alla fine degli anni ’70 e ha quindi vissuto la sua infanzia negli ’80 e l’adolescenza nei ’90 è veramente molto difficile lasciarsi andare ad entusiasmi rispetto al calcio di oggi.

Quando il calcio si viveva a 360 gradi

Quelli della mia generazione di pallone ci vivevano letteralmente. Si, la mia generazione, senza distinzione di estrazione sociale e storia familiare il calcio lo viveva prima di tutto nel praticarlo. Prenotare un campo negli anni ’90 era un’impresa epica. Di solito i gruppi di amici quel determinato campo a quella determinata ora lo prenotavano per l’anno intero con opzione per quello successivo. Le partite poi, andavamo a vederle allo stadio oppure ci riunivamo la sera a casa di quei pochi che all’epoca avevano un contratto con la pay-tv. A parte la squadra del cuore, che per un tifoso vero resta sempre quella a prescindere dai risultati sportivi, di solito si sceglieva la partita in base ai giocatori che scendevano in campo. E di solito il calciatore che ci teneva davanti alla tv indossava una maglietta col numero 10.

C’era una volta il numero 10

Quel calciatore che portava quel numero sulle spalle fino ad un certo punto è stato anche impossibile inquadrarlo in un ruolo. Ad un certo punto lo si è chiamato fantasista, prima di cominciare a delimitarlo in una zona di campo. Allora sono arrivate le definizioni trequartista o seconda punta. Il numero 10 di cui parlo io aveva una libertà di movimento e di spaziare nel campo di gioco totale. Non di rado capitava di vedere uno di questi uomini prendere palla appena fuori dalla propria area di rigore. Sempre aveva la libertà di scegliere chi andare a mettere in difficoltà e su quale fascia. È vero era abbastanza abituale anche la situazione nella quale per intere fasi di una partita questo esemplare estinto si assentava dal gioco, quasi se ne disinteressava. Quando però arrivava il momento di determinare, di creare, di seguire l’istinto allora quel tipo di giocatore lasciava per un attimo tutti a bocca aperta prima che cominciassero a scrosciare gli applausi degli spettatori.

Quando la tattica ha soppresso la fantasia

Ad un certo punto qualcuno ha deciso che dovesse prevalere l’idea di calcio degli allenatori a discapito di calciatori anche molto forti. In nome della tattica era diventato sacrificabile il numero 10. Il primo in Italia a portare avanti l’estinzione del fantasista è stato Arrigo Sacchi. Il suo Milan era fatto di giocatori fisicamente superiori, soprattutto gli olandesi. Il suo 4-4-2 prevedeva essenzialmente che gli uomini in campo effettuassero un pressing asfissiante che portava quasi sempre l’avversario in fuorigioco. Per quanto riguarda la fase offensiva, le continue sovrapposizioni dei terzini alle ali portavano una serie infinita di cross che i giganti Gullit e Van Basten spesso trasformavano in gol. Questo calcio votato alla vittoria e all’annichilimento dell’avversario, fatto tutto di corsa e di fisico non lasciava nessuna possibilità ad un calciatore di fantasia, anarchico per definizione e libero di spaziare per il campo.

L’esilio di Zola in nome del 4-4-2

Un caso emblematico di numero 10 fatto fuori dalla tattica è quello di Gianfranco Zola, non a caso uno degli ultimi ad aver giocato in quel ruolo. L’allora allenatore del Parma, Carlo Ancelotti, disse apertamente e pubblicamente che il fuoriclasse sardo intralciava gli schemi della squadra. In qualche modo li rallentava visto che amava toccare parecchie volte il pallone. Per farla breve, dopo averlo relegato per un po’ sulla fascia sinistra ha deciso di disfarsene a vantaggio del Chelsea de di tutto il calcio inglese.

Un lampo in una notte di mezza estate

Nella noia della canicola estiva, stanco di ascoltare le solite chiacchiere sul calciomercato, ho provato a cercare un film per passare la serata. Mi sono imbattuto in Come un padre, documentario che ripercorre la carriera di Carletto Mazzone. A dare voce al documentario sono Totti e Baggio, ma anche Pep Guardiola, Pirlo, Materazzi e alcuni fedelissimi di Mazzone come Petruzzi e Cappioli. Inutile dire che mi sono riconciliato per quegli ottanta minuti scarsi con il calcio.

Quando l’allenatore di calcio era anche un padre

A parte l’uomo eccezionale che è stato ed è Mazzone, si è fatta leva anche su quello che era e secondo me dovrebbe essere un allenatore di calcio. Il titolo del documentario è quanto mai azzeccato perchè Carletto è stato davvero come un padre per i suoi calciatori. Ovunque abbia allenato è riuscito a costruire una famiglia e la cosa si è sempre riflessa in campo. Inoltre è stato lui a regalarci altri quattro anni di Roberto Baggio, a parlare con Pirlo e convincerlo che come regista avrebbe avuto una grande carriera. E poi la bellezza del calcio di provincia. Addirittura uno ossessionato dalla tattica come Guardiola dice «L’umiltà, che nella vita serve tanto. Venivo dal Barcellona e lì ovviamente non c’era questa cosa. Invece a Brescia si vinceva poco, ma quando si vinceva si godeva veramente».

Emblematico anche il ricordo di Gigi DI Biagio: Alla fine della stagione era come al solito a fare la doccia con noi e ci disse “ a ragà non abbiamo vinto niente, ma quanto ci siamo divertiti.”

Continuare a credere che sia possibile che Kvara giochi da numero 10

A quelli come me, che ricordano ancora con affetto e nostalgia un calcio che non c’è più, che sognano di poter vedere Kvaratskhelia giocare da numero 10 e spaziare per il campo, senza essere inchiodato sulla fascia sinistra da un 4-3-3 rimane sempre la convinzione donchisciottesca che almeno in parte quel calcio possa tornare. Come ha detto uno scrittore argentino che il calcio amava follemente, Jorge Luis Borges, “ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, li ricomincia la storia del calcio”.